La pittura abruzzese dell’Ottocento è particolarmente ricca di artisti, alcuni tra i più famosi del secolo: i fratelli Palizzi, Teofilo Patini, Francesco Paolo Michetti e Michele Cascella sono solo alcuni dei pittori che, formatisi nell’Accademia di Belle arti di Napoli, hanno raccontato l’Abruzzo (e non solo) con la loro arte.
I principali pittori abruzzesi dell’Ottocento
Filippo Palizzi
Vasto, 16 giugno 1818 – Napoli, 11 settembre 1899
Nasce a Vasto, nella provincia di Chieti, da Antonio e Doralice Del Greco, secondo, dopo il primogenito Giuseppe, dei quattro fratelli pittori. Dopo gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza, trascorsi nella città natale, si trasferisce nel novembre del 1837 a Napoli, seguendo l’esempio del fratello Giuseppe, per frequentare il locale Istituto di Belle Arti valendosi di un sussidio quadriennale della provincia di Abruzzo Citeriore. Da subito però manifesta palese avversione agli studi accademici per allontanarsene in maniera definitiva due anni dopo. Si avvicina così allo studio della natura sviluppando un vero e proprio “genere”, originale ed innovativo (“verità genuina che non era di nessuna scuola”), e raccogliendo rapidamente consensi e successi. A Palizzi interessava principalmente immergersi nel suo mondo creativo collocando al primo posto gli animali più mansueti e più vicini all’attività pastorale.
Il dipinto La difesa dell’erba, pubblicato anche con il titolo Assalto alla diligenza, presenta un arido scorcio paesaggistico in cui si svolge una tipica scena di campagna: un asinello, che crolla sotto il peso del fieno, delle gerle e della piccola contadina in bilico sulla soma, viene immediatamente preso d’assalto da un gregge di capre che si avventa famelico sull’appetitoso carico. Al richiamo delle urla della ragazzina arriva il pastore armato di bastone che cerca di scacciare il gregge dall’ambita preda.
Teofilo Patini
Castel di Sangro, 5 maggio 1840 – Napoli, 16 novembre 1906
Nativo di Castel di Sangro, in provincia dell’Aquila, studiò inizialmente filosofia all’Università di Napoli, prima di iscriversi — nel luglio del 1856 — ai corsi di pittura dell’Accademia di Belle Arti della stessa città. Si legò presto al gruppo di pittori a cui faceva capo a Filippo Palizzi, di cui fu fervente allievo. All’Aquila nel 1882 fondò la “Scuola di Arti e Mestieri” e proprio nel capoluogo abruzzese, Patini ebbe dimora e stabilì il suo atelier nel monumentale Palazzo Ardinghelli, nel quarto di Santa Maria, di proprietà della famiglia Cappelli. Da profondo e dichiarato socialista quale era, dipinse quadri ritraenti la civiltà contadina abruzzese di fine Ottocento e primi del Novecento, mettendo in rilievo la “condizione di povertà della regione” e la “capacità di resistenza e di sacrificio della popolazione”. La pittura fu, oltre che la sua profonda passione, il megafono con il quale urlava al mondo le misere condizioni del suo popolo: megafono che idealmente consegnerà a Ignazio Silone, lo scrittore di Fontamara. Tra le tante, tre delle sue opere ebbero una forte connotazione politica e per questo, idealmente, vengono considerate come facenti parte di una “trilogia sociale“: Vanga e latte, L’erede e Bestie da soma.
La famiglia raffigurata in Vanga e latte è formata dalle figure essenziali di padre, madre e figlio, ritratte in aperta campagna: l’uomo è intento a vangare il terreno mentre la donna, interrotto momentaneamente il lavoro, si siede a terra ed allatta il figlio neonato. Sul terreno giacciono gli oggetti che compongono il quadro e descrivono simbolicamente la vita della famiglia: la culla e l’ombrello posto a ripararla, il basto, la piccola botte, il cencio rosso e, sulla destra, la giacca, il cappello e il piatto di polenta con le due posate di legno; anche il cielo, visto dal basso, sembra poggiare pesantemente sulla terra, generosa solo di sterpi e stoppie.
Francesco Paolo Michetti
Tocco da Casauria, 4 ottobre 1851 – Francavilla al Mare, 5 marzo 1929
I primi studi artistici compiuti a Chieti gli garantirono il pensionato presso l’Istituto di Belle Arti di Napoli nel 1868, dove ottenne due premi di incoraggiamento. Insieme con lo studioso Antonio De Nino e lo scultore Costantino Barbella si interessò alle tradizioni del mondo contadino, formulando un immaginario popolare di impianto corale. Divenne amico di Gabriele D’Annunzio, conosciuto nel 1880, che lo ospitava abitualmente a Francavilla al Mare, insieme con un cenacolo di personaggi tra i quali Barbella, Paolo Tosti e il De Nino: da questo sodalizio nasce La figlia di Iorio, quadro realizzato prima del 1904, data dell’omonima opera dannunziana.
Per la realizzazione dell’opera Francesco Paolo Michetti si ispirò ad una scena alla quale aveva assistito a Tocco da Casauria, suo paese natale, dove in un giorno d’estate era apparsa correndo sulla piazza una giovane donna scarmigliata inseguita da alcuni contadini, eccitati dal vino e dal sole, come raccontò D’Annunzio, presente con lui alla scena. D’Annunzio scrisse una lettera al Michetti, subito dopo aver terminato di scrivere La Figlia di Iorio: «Queste settimane d’estate resteranno memorabili per me. Non avevo mai lavorato con tanta violenza e non avevo mai sentito il mio spirito in comunione così forte con la terra. Quest’opera viveva dentro di me da anni, oscura. Non ti ricordi? La tua Figlia di Iorio fece la prima apparizione or è più di vent’anni, col capo sotto un dramma di nubi. Poi d’improvviso si mostrò compiuta e possente nella gran tela, con una perfezione definitiva che ha qualche analogia con la cristallizzazione dei minerali nel ventre delle montagne.» In primo piano vediamo proprio una fanciulla che, in un ambiente naturale, passa accanto a degli uomini che la osservano: ella indossa un lungo abito rosso e ha il capo coperto, in modo da celare la sua procacità; in realtà, con un simile espediente viene sottolineata l’innocenza della protagonista nel non voler provocare gli sguardi. La modella scelta per la donna fu Giuditta Saraceni, una diciannovenne originaria di Orsogna. Lo sfondo è dominato dall’imponente profilo montuoso della Majella.
Michele Cascella
Ortona, 7 settembre 1892 – Milano, 31 agosto 1989
Pittore e paesaggista crepuscolare italiano, nel corso della sua lunga vita artistica, articolatasi in quasi otto decenni di intensa attività, Cascella ha saputo mantenere uno stile unico, inconfondibile e pressoché immune dalle contaminazioni delle correnti ed avanguardie pittoriche del primo Novecento. Nelle opere giovanili, fra Abruzzo, Milano e Parigi Michele Cascella rivela immediatamente il talento di colorista. Opere quali il Paesaggio con figure, Trabocco di San Vito, Primavera presso Ortona e Figure sulla Pescara, tutte antecedenti al 1908, possono classificarsi fra le più moderne del panorama nazionale di inizio ‘900, ricche di svaporamenti cromatici che stilizzano la natura per introdurla in una dimensione simbolista, estranea alla caducità delle cose terrene. La sperimentazione della sensorialità impressionista, caratteristica delle esperienze di Cascella fino al 1913, denota una visione della natura come oggetto di contemplazione che deve suscitare, in primo luogo, coinvolgimento emotivo.
La scena del dipinto Primavera presso Ortona si apre con due alberi in primo piano che lasciano intravedere una casa, tre contadini e il mare all’orizzonte. Predominano le tonalità del rosa, dell’arancione e dell’azzurro, che conferiscono luminosità e calore alla composizione. Il tipico tratto dell’artista, veloce e sottile, dona armonia e vivacità ad un tipico paesaggio abruzzese durante la stagione primaverile.
Classe 1995, nasce a Vasto (CH). Conseguita la laurea in Lettere moderne, si specializza dapprima in Filologia, linguistica e tradizioni letterarie e successivamente in Giornalismo e cultura editoriale. Ha tentato fin da subito di fare della scrittura un lavoro, collaborando con agenzie web e testate locali. Oggi attraverso Visitare Abruzzo racconta la sua regione, per cogliere gli aspetti tipici di una terra autentica e verace.